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I GUERRIERI CELTI

Ultimo Aggiornamento: 04/07/2007 14:30
04/07/2007 14:30
 
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I GUERRIERI CELTI

Per tutta la lunga storia dei popoli celtici, i guerrieri utilizzarono le rapide incursioni finalizzate al bottino, le guerre tra tribù e le faide tra clan vicini, come altrettante occasioni per l'affermazione del proprio valore e della propria abilità personale.
Il guerriero, seconda funzione della tripartizione indoeuropea, i guerrieri erano l'anima e il nerbo del popolo celtico. Non si trattava di una casta chiusa, ma dell'insieme di uomini liberi, abilitati a portare un'arma. Contadini e artigiani potevano di volta in volta rientrare, all'occorrenza, nei ranghi dei guerrieri. Solo un minimo numero di essi prestava regolarmente servizio come clienti (ambacts in gallico) presso di un Principe nel periodo Hallstattiano, o presso un membro dell'aristocrazia nel successivo tardo periodo detto di La Tène finale, all'epoca della conquista romana della Gallia.
Per un celta la morte non era nulla di più del passaggio dalla vita a un'altra realtà, mentre la fama del proprio eroismo e il rispetto dei propri pari, rappresentavano la più alta forma di immortalità raggiungibile da un guerriero.
I Celti, normalmente, non avevano forze armate permanenti. Quando un pericolo si profilava all'orizzonte, i Galli convocavano un'assemblea di tutti gli uomini armati. Da quella riunione emergevano per acclamazione le proposte strategiche generali per fronteggiare il pericolo; purtroppo, salvo rare eccezioni, le bande armate così mobilitate agivano poi per tribù e per clan, rendendo sempre difficile la coordinazione tattica e la coesione fra i vari reparti.
Appena diversa era la situazione nei territori italici e dei Balcani dove, vivendo in terra occupata, con un popoloso substrato di indigeni, conquistati ma non ancora assimilati e in stretta vicinanza con potenti nemici quali etruschi e romani, i guerrieri Celti rimanevano costantemente in "servizio".
Dallo studio dei testi tramandatici dagli autori contemporanei, pare che le grosse bande di guerrieri e gli eserciti dei Celti fossero composte principalmente da una massa di fanti affiancati da gruppi più o meno numerosi di cavalieri.
La cavalleria era reclutata tra l'aristocrazia guerriera che, per censo, poteva permettersi il mantenimento della cavalcatura ed eventualmente fornirla anche ai propri clienti (ambacts), cioè i guerrieri giurati portatori di lancia e scudo che componevano il seguito personale di un nobile in battaglia come ai banchetti, e che si erano impegnati a seguirlo ovunque, persino nella morte. Ci è così giunta descrizione di guerrieri sopravvissuti che si suicidano al termine della battaglia per seguire la sorte del proprio signore.
Dalla statuaria greca di Pergamo come da ritrovamenti della Gallia, risulta che il cavaliere celta era talvolta ricoperto da una cotta di maglia ad anelli stretti (di cui i Romani riconoscevano ai Celti l'invenzione), protetto da un lungo scudo ovale e armato da una lunga lancia con lama a foglia, da un corto pugnale con l'elsa decorata e dalla spada lunga legata al fianco.
La reputazione di coraggio e di ferocia dei guerrieri Celti è giunta sino a noi tramite le descrizioni sconcertate quando non addirittura terrorizzate delle loro stesse vittime, e riportate nelle cronache storiche delle grandi civiltà mediterranee.
Veniamo così a sapere che, nelle situazioni disperate, anche le donne combattevano con uguale ferocia a fianco dei loro uomini.
Lo storico greco Diodoro Siculo, così descrive l'impressionante aspetto dei guerrieri Celti:
"Sono alti di statura, con una muscolatura possente sotto la pelle chiara. Di capelli sono biondi, non solo per natura, ma anche perché se li schiariscono artificialmente lavandoli con acqua e gesso, pettinandoli poi all'indietro sulla fronte e verso l'alto. Taluni si radono la barba, altri ostentano sulle guance rasate dei grandi baffi che coprono l'intera bocca e fungono da setaccio durante in pasto, per cui vi restano imprigionati pezzi di cibo."
E proprio nell'aspetto dei Celti risiedeva la loro arma migliore. Essi atterrivano letteralmente i propri nemici con l'abbigliamento, il clamore e il feroce atteggiamento sprezzante verso la morte, che assumevano in battaglia. Il loro ardore selvaggio, la lucida follia guerresca che troveremo ancora nei berserker vichinghi, avevano il potere di terrorizzare i più civili avversari greci e romani. Gli scrittori romani definirono furor questo stato di bramosia del sangue, di pazzia guerriera che travolge il combattente che si lancia così in cerca del nemico, totalmente indifferente delle ferite che potrà riportare.
All'animo calcolatore e pratico del romano, nulla doveva sembrare più alieno, incomprensibile e quindi inquietantemente spaventoso di questa irrazionale e incontenibile sete di sangue, tanto che il furor gallico fu sempre temuto da soldati e ufficiali delle legioni.
I Celti non brillarono mai molto per la disciplina o per l'organizzazione tattico-logistica, finendo sempre per superare con la pura forza del coraggio situazioni che gli eserciti più rigidamente strutturati delle altre civiltà, affrontavano con il metodo.
Le fortificazioni nemiche venivano affrontate d'impeto, scalandone i contrafforti con scale di legno, mentre un cerchio di guerrieri le bersagliava di sassi e frecce impedendo l'attività dei difensori.
Se sorpresi in movimento, i Celti formavano una linea difensiva con i pesanti carri a quattro ruote su cui trasportavano insieme alla famiglia tutti i loro averi.
La consuetudine di collezionare le teste dei nemici per mostrare il proprio valore colpì gli storici Greci e Romani che li definirono barbari. Eppure, presso di loro, la guerra raggiunse un livello di ritualità quasi cultuale, sublimandosi negli scontri individuali e sempre alla ricerca di una dimostrazione del proprio valore personale che, finita l'epoca dei grandi eserciti di massa, riaffiorerà nella mistica e nell'etica del Cavaliere errante del medioevo permeando di sé tutta la cultura europea e l'ideale di eroe guerriero sino ai nostri giorni.
Sempre Diodoro Siculo, a proposito del tumultus gallico, l'insieme di urla, strepiti e sfide con cui i Galli si lanciavano sul nemico, ci riferisce che all'inizio di uno scontro, già disposti in linea di battaglia, i guerrieri Celti avanzavano nella striscia di terreno che divideva i due schieramenti per sfidare a duello i campioni della parte avversa. "Brandiscono le armi e urlano in modo da intimorire il nemico. Se però uno di questi accoglie la sfida, i compagni dello sfidante erompono in canti frenetici che esaltano le imprese dei padri e il loro proprio valore, mentre l'avversario viene dileggiato e offeso con l'intento di fargli perdere il controllo prima dello scontro." (Diodoro V-29)
La ritualità dello scontro si rifletteva anche sulla visione magico fantastica che i Celti avevano del mondo.
Le loro spade erano spesso decorate con elaborati intrecci vegetali e animali fantastici dal valore magico-esoterico. Il doppio filo di queste lunghe lame permetteva di colpire meglio di taglio che di punta, cosa questa molto difficile negli scontri ravvicinati.
Sulla schiena, o al braccio libero, il guerriero celta portava spesso uno scudo, in legno e cuoio, con un umbone in metallo lavorato.
Alla cavalleria si affiancava in epoca arcaica (ma nelle isole Britanniche ancora fino ai tempi di Cesare) una schiera di carri da guerra a due ruote.
La letteratura epica irlandese (che risale per tradizione orale, direttamente alla prima epoca del Ferro) ci ha lasciato delle descrizioni precise e dettagliate di come venivano usati in battaglia questi carri veloci, solidi, leggeri e letali.
Nel Ciclo dell'Ulster ci viene raccontato come Cu Chulainn si avvia al suo ultimo scontro sul suo carro, armato di lancia e spada, affiancato dal suo auriga che gli regge le lance di riserva e manovra la fionda. E nello splendore del suo eroismo guerriero, l'unica cosa che pare preoccuparlo è quella di riuscire a morire in piedi, dopo aver ucciso il maggior numero possibile di avversari.
Dopo le sfide e gli scontri dei singoli campioni, gli eserciti dei Celti si lanciavano all'attacco generale. Negli scontri, la massa dei semplici guerrieri appiedati era provvista solo di armi offensive, non potendosi permettere né le costose cotte di maglia né i preziosi elmi elaborati dell'aristocrazia e talvolta neppure uno scudo.
Guidati dall'assordante suono dei tamburi e dei Lir (le lunghe trombe di guerra dei Celti chiamate anche carnix) i guerrieri si lanciavano disordinatamente sul nemico con furia e strepiti ma per lo più senza una tattica precisa, o meglio, con l'intento di travolgere il nemico unicamente con il peso della forza bruta. E nell'eccitazione della battaglia il vero obiettivo era quello di dar mostra del proprio valore facendosi notare dal proprio signore per gli atti di coraggio compiuti. La quantità e la qualità del bottino di guerra portato al nemeton (santuario) della tribù, era il metodo usato per misurare questo valore. E tra il bottino, uno dei pezzi per lungo tempo più ricercati, oltre ad armi e gioielli, furono le teste dei nemici più valorosi.


Dai libri: I Guerrieri Celti, "I Primi Abitanti Alpini e L'Epopea dei Celti, ed. Keltia



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